Un eterno dilemma.
di Miriam Di Nardo e Massimo Esposito
Le relazioni nel disturbo del comportamento alimentare.
In italiano con la parola “Dilemma” si intende presenza di due alternative e la necessità di scegliere tra di esse; il dilemma impone un bivio, impone il prendere una decisione. Come gestiscono il dilemma le persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, e in che modo i dilemmi sono presenti nelle loro relazioni affettive?
Fin dal primo anno di vita i bambini che svilupperanno una chiusura organizzativa di tipo disturbi alimentari psicogeni (DAP) e un disturbo delle condotte alimentari (DCA) faticano ad identificare le sensazioni di fame e sazietà.
Spesso le persone che si trovano ad affrontare un disturbo delle condotte alimentari, fin dalla prima esperienza con il cibo, al momento dell’allattamento, si relazionano con una madre, che tende a vivere il proprio ideale di perfezione.
Una madre che rispetta alla lettera le regole che le vengono imposte senza sintonizzarsi sulle necessità corporee ed emotive del piccolo. Forse per la prima volta nella loro esistenza, questi bambini, si trovano davanti ad un dilemma.Il neonato ha delle sensazioni che gli fanno percepire il vuoto gastrico? Riesce a provare sensazioni stomacali di sazietà?
Si trova di fronte ad un dilemma. Come lo risolve?
Il piccolo sceglie. Per essere accudito e riconosciuto si collega con gli stati d’animo della madre, iniziando ad avere un riferimento esterno (la madre) e non interno (se stesso). Non prende in considerazione le proprie sensazioni ma impara a reagire come l’altro vuole che reagisca, quindi se l’aspettativa altrui è “fame”, ha fame. Se l’aspettativa altrui è sazietà, sarà sazio.
La comunicazione e lo scambio emotivo sono costantemente ambigui, le emozioni sperimentate, mai chiare, risultano ambivalenti. Si struttura un attaccamento Evitante Compiacente A4 (Guidano 1988, 1992, 2007). Il neonato giunge ad un equilibrio emotivo, ma con un adattamento costante all’esterno che avviene nel “qui ed ora”, favorito dal fatto che le persone per lui significative spesso ridefiniscono delle anticipazioni su sensazioni e sentimenti.
Durante l’infanzia questi bimbi vedono i genitori come dei Super Eroi, con l’idealizzazione infatti il piccolo riesce a costruirsi e mantenere una identità stabile di sé.
Da un lato mantiene un’immagine positiva del proprio Caregiver (la figura che si prende cura di lui), dall’altro implicitamente conserva una rappresentazione di sé come inadeguato e non degno di amore. Questa dinamica alimenta una bassa stima nucleare, che è alla base della vulnerabilità del Disturbo del Comportamento Alimentare (Dalle Grave et al., 2007).
Questo tipo di relazioni permettono e incentivano una costruzione del sé vago e indefinito. L’altro significativo diventa, gradualmente, un punto di riferimento che definisce identità, sensazioni ed emozioni. Le emozioni sono poco differenziate e conosciute, ma la colpa o la vergogna sono ben definite e si manifestano quando non si corrisponde alle aspettative altrui (Lewis, 1997).
Nella pubertà l’immagine dei genitori è meno idealizzata e più reale, arriva quindi il momento in cui “mamma e papà” vengono percepiti con i propri pregi e difetti. Ma per i pazienti con DCA è difficile calare i genitori nel reale poiché su di essi proiettano il perfezionismo e gli standard irraggiungibili e distorti che applicano al proprio peso e alla propria forma corporea.
L’adolescenza, quindi, è costellata da quelle che loro percepiscono come delusioni genitoriali (Caravanna et al.2010). Il dilemma centrale diventa: i miei genitori mi vedono? Mi comprendono? O non sono preso in considerazione? Una costante oscillazione tra mi amano o non mi amano. L’adolescente inizia a sentirsi insicuro, non compreso e non sostenuto.
I dati che convalidano questa ipotesi mostrano che rispetto al gruppo di controllo, l’adolescente che soffre di anoressia, ha una minore fiducia in se stesso e una maggiore rabbia nei confronti dei genitori e dei pari (Cunha et al., 2009).
Una volta diventato adulto il soggetto con una chiusura organizzazionale Dap e con un disturbo del comportamento alimentare, lavora dietro le quinte per costruire un “messaggio” che lo renda inattaccabile e soprattutto non giudicabile. Tutto è strutturato e creato per apparire al meglio e per comunicare un’accezione positiva e vincente di sé.
L’immagine diventa fondamentale, mentre quello che accade realmente viene tralasciato. Il reale si trasforma soli in ciò che è social. Sul lato buio dei social, dietro il palcoscenico, si celano delle credenze di base che hanno a che fare con autosvalutazione, insicurezza, inadeguatezza, mancanza di valore, percezione di poca competenza.
Il dilemma perpetuo è: sono un vincente o non valgo niente?
Le risposte vengono dalla lettura che gli altri restituiscono del messaggio dell’evento e del contesto. E così accanto ad un altro positivo e ottimista, l’adulto si sente bene e adeguato, ma vicino ad una persona negativa diventa pessimista e si percepisce come inadeguato. Il parametro di giudizio è completamente esterno e delegato all’altro.
Il Dap con un disturbo del comportamento alimentare non entra in conflitto, ma vive la propria esistenza come una comparsa, come un attore che interpreta una parte di una sceneggiatura scritta da altri (De Marchis et al. 2011), fino a quando, non si sente invaso e in fusione con l’altro.
Altro dilemma quindi: aderisco al contesto o mi demarco? Resto in fusione o mi distanzio?
Chi vive questa condizione non può stare dentro una relazione in modo esclusivo (fusione) ma, fuori della relazione, si sente rifiutato e non appetibile. Una sorta di equilibrio viene raggiunto in situazioni complesse che si costruiscono su una comunicazione del “detto-non detto”, garantendo quindi l’ambiguità, la minima esposizione e la tendenza a non prendere posizioni definite.
Queste persone tentano di raggiungere una giusta distanza dall’altro, mettendosi nella condizione di “stare vicino” per sentirsi al sicuro ma garantendosi una situazione alternativa che permette loro di demarcarsi e preservare uno spazio autonomo e personale.
Nel caso di una relazione questa “strategia” potrebbe prendere forma per esempio nell’essere sposati (avere la sicurezza) e allo stesso tempo avere degli amanti, o delle storie parallele che garantiscono la demarcazione.
Le persone con una chiusura organizzativa di tipo disturbi alimentari psicogeni e un disturbo delle condotte alimentari all’interno delle relazioni si crogiolano nel dilemma per poi gestirlo e risolverlo raggiungendo una sorta di equilibrio emotivo.
Ma se la stessa relazione terapeutica si può considerare un legame, cosa fare all’interno del nostro studio?
Nella relazione terapeutica è importante, fin dalle prime sedute, definire chiaramente le regole del contratto terapeutico e gli obbiettivi da raggiungere, per uscire da una consuetudine comunicativa basata “sul detto-non detto” e spesso fondata su frasi ambigue ed ambivalenti.
Già dalle prime sedute si lavora con una messa in sequenza degli eventi (tecnica della moviola), si tende a favorire una comunicazione tra autoconoscenza tacita ed esplicita, per facilitare una rilettura dell’esperienza in termini di maggiore responsabilità e autonomia, restituendo alle relazioni diadiche la complicità di un agito fatto da due persone attive (Giudano e Liotti, 2007).
Si cerca di modificare, a livello metaforico, il ruolo che il paziente interpreta nella propria vita. Il tentativo è di trasformalo da semplice comparsa a sceneggiatore, per restituirgli la possibilità di scegliere in modo autonomo all’interno della propria vita e leggere gli eventi, non come imputabili al caso, ma come conseguenze delle proprie decisioni e posizioni (De Marchis et al., 2012). Il narrare le situazioni e gli accadimenti quotidiani, permette con il tempo di alleggerire il peso che il giudizio degli altri porta con sé, restituendo al proprio giudizio un peso più adeguato (De Pascale et al., 2014).
A conclusione del nostro lavoro possiamo supporre che all’interno della relazione terapeutica sia importante lasciare all’individuo l’opportunità di potersi riconoscere nel suo essere variegato, nella sua possibilità di aderire al contesto ma anche di demarcarsi. E’ necessario, all’interno del setting, non confinare la persona in una una dicotomia bianco o nero, giusto e sbagliato, evitando di incollarlestereotipi o etichette unidirezionali e stringenti che potrebbero farla sentire nuovamente definita e incastrata all’interno di binari preconfezionati.
Bibliografia
Caravanna D., Delogu A.M., Zavattini G.C. (2012) “La prospettiva dell’attaccamento nei disturbi del comportamento alimentare” Psicologia Clinica dello sviluppo a XVI, n°1, aprile.
Cunha A.I., Relvas A.P., Soares I. (2009) “Anorexia nervosa and relationships: perceived family functioning, coping strategies, biliefs and attachments to parents and peers” Int J of Clin and Health Psych 9, 229-240.
Dalle Grave R., Sartirana M., Camporese L, Marchi I., Calugi S. (2007) “Terapia cognitivo comportamentale Multi-step per i disturbi dell’alimentazione: basi teoriche e aspetti pratici” Cognitivismo Clinico 4,1, 54-71.
De Marchis M., Elena Rognoni, M., Zaratti, R. (2012) “Aspetti dell’Amore contemporaneo in una Organizzazione di significato di tipo Disturbi Alimentari Psicogeni” Atti del XI Convegno di Psicologia e Psicopatologia post-razionalista, Siena 21-25 maggio.
De Pascale A., Cimbolli P.(2014) “Disturbi delle Condotte Alimentari”, Alpes.
Guidano V.F. (1988) “La complessità del Sé” Bollati Boringhieri, Torino.
Guidano V.F. (1992) “Il Sé nel suo divenire” Bollati Boringhieri, Torino.
Guidano V.F., G. Liotti., (2018) “Processi cognitivi e disregolazione emotiva” Edizioni Apertamenteweb.
Lewis M., (1997) “Altering fate” The Guildford Press N.Y. London.
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